8 Agosto 2009
Da Almodovar alla Cassazione
Non spacciare per famiglia ciò che famiglia non è
Va rassicurato Pedro Almodovar: Benedetto XVI non ha bisogno di fare una passeggiatina fuori del Vaticano per rendersi conto di certi fenomeni sociali; fenomeni che peraltro appaiono assai marginali, se si guarda al totale degli abitanti del Pianeta e, soprattutto, al di là di certi contesti del decadente Occidente. Sì: perché il noto cineasta sembra addebitare al Papa di non riconoscere altro che «la variante cattolica della famiglia», ignorando la pretesa realtà di una pluralità di esperienze familiari. Di qui l’invito a uscire dal Vaticano per vedere finalmente il mondo, giacché «è del tutto folle non riconoscere come vivono oggi milioni e milioni di persone». Almodovar va rassicurato perché attraverso quell’enorme rete che avvolge tutto il globo, data dalle strutture ecclesiastiche, dalle associazioni e dai movimenti, dalle opere sociali e di volontariato, dall’immenso strumentario di carità, la Chiesa cattolica è presente in tutti i contesti umani ed è certamente il miglior conoscitore di come va il mondo.
Verrebbe da domandarsi, semmai, quali siano i limiti d’orizzonte e le fonti dirette di conoscenza di chi lancia certe inutili provocazioni. Qui occorre precisare che non esiste una 'variante cattolica della famiglia'; che la famiglia, come società costituita dal matrimonio, presenta una struttura essenziale, invariabile e invariata nel tempo, com’è dato rilevare a livello storico, etnologico, antropologico, giuridico; che il matrimonio cristiano è nient’altro che l’elevazione a dignità di sacramento, tra battezzati, dell’istituto naturale. Certamente, la storia insegna che a livello personale, le esperienze concrete possono essere più o meno fedeli al modello; ci sono storie di fallimenti, umanamente dolorosi e che debbono essere oggetto di umana vicinanza, ma anche storie di eroismi nel mantenere fede alla parola data, nel volere il bene del coniuge, dei figli, degli altri componenti il gruppo familiare, anche quando l’amore sia scomparso o quando sia venuta meno l’utilità del vivere insieme.
Così come la storia insegna che vi possono essere forme di solidarietà umana anche al di fuori della famiglia, dove i vincoli di sangue non contano perché non ci sono, che si fanno carico dei più piccoli, dei più deboli, di chi non può contare sulle proprie forze; forme di solidarietà di cui – grazie a Dio – è intessuta la quotidianità, che umanizzano la convivenza e che dovrebbero essere meglio sostenute e incoraggiate. Il problema, però, è non confondere le più diverse espressioni del farsi carico dell’altro con la famiglia; non contrabbandare per comunità familiare ciò che tale non è. In questo senso lascia molto perplessi una sentenza della Cassazione, appena resa nota, secondo cui «il diritto non può non tener conto dell’evoluzione della società e della necessità di adattare le sue regole ai mutamenti della realtà sociale», che «oggi famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio» rispetto a quello che veniva loro attribuito in passato, e che «la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile e anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio».
A prescindere, infatti, dalla coerenza di queste affermazioni con l’articolo 29 della Costituzione, che nella misura in cui «riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» dà chiaramente a vedere che il paradigma di riferimento precede il diritto positivo e non può da questo essere mutato, rimane pur sempre la domanda alla quale nessuno ha mai fornito una risposta, e cioè: perché si pretendono gli effetti giuridici di quel matrimonio che non si vuole?
È la volontà manifestata formalmente e pubblicamente di farsi carico di coniuge e figli, per il futuro, nella buona o nella cattiva sorte, che qualifica e distingue la famiglia, e non il mero scorrere del tempo. Tornando ad Almodovar, nasce un dubbio: certa cinematografia vuol essere realmente uno specchio della realtà o, viceversa, vuole incidere sulla realtà sociale per modificarne valori etici e cultura? È descrizione o manipolazione? Rappresenta per allertare sulle difficoltà che in determinati contesti, oggi, la famiglia incontra a realizzarsi secondo la propria natura, o persegue l’obiettivo ideologico – ma anche utopistico – del suo superamento?
Verrebbe da domandarsi, semmai, quali siano i limiti d’orizzonte e le fonti dirette di conoscenza di chi lancia certe inutili provocazioni. Qui occorre precisare che non esiste una 'variante cattolica della famiglia'; che la famiglia, come società costituita dal matrimonio, presenta una struttura essenziale, invariabile e invariata nel tempo, com’è dato rilevare a livello storico, etnologico, antropologico, giuridico; che il matrimonio cristiano è nient’altro che l’elevazione a dignità di sacramento, tra battezzati, dell’istituto naturale. Certamente, la storia insegna che a livello personale, le esperienze concrete possono essere più o meno fedeli al modello; ci sono storie di fallimenti, umanamente dolorosi e che debbono essere oggetto di umana vicinanza, ma anche storie di eroismi nel mantenere fede alla parola data, nel volere il bene del coniuge, dei figli, degli altri componenti il gruppo familiare, anche quando l’amore sia scomparso o quando sia venuta meno l’utilità del vivere insieme.
Così come la storia insegna che vi possono essere forme di solidarietà umana anche al di fuori della famiglia, dove i vincoli di sangue non contano perché non ci sono, che si fanno carico dei più piccoli, dei più deboli, di chi non può contare sulle proprie forze; forme di solidarietà di cui – grazie a Dio – è intessuta la quotidianità, che umanizzano la convivenza e che dovrebbero essere meglio sostenute e incoraggiate. Il problema, però, è non confondere le più diverse espressioni del farsi carico dell’altro con la famiglia; non contrabbandare per comunità familiare ciò che tale non è. In questo senso lascia molto perplessi una sentenza della Cassazione, appena resa nota, secondo cui «il diritto non può non tener conto dell’evoluzione della società e della necessità di adattare le sue regole ai mutamenti della realtà sociale», che «oggi famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio» rispetto a quello che veniva loro attribuito in passato, e che «la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile e anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio».
A prescindere, infatti, dalla coerenza di queste affermazioni con l’articolo 29 della Costituzione, che nella misura in cui «riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» dà chiaramente a vedere che il paradigma di riferimento precede il diritto positivo e non può da questo essere mutato, rimane pur sempre la domanda alla quale nessuno ha mai fornito una risposta, e cioè: perché si pretendono gli effetti giuridici di quel matrimonio che non si vuole?
È la volontà manifestata formalmente e pubblicamente di farsi carico di coniuge e figli, per il futuro, nella buona o nella cattiva sorte, che qualifica e distingue la famiglia, e non il mero scorrere del tempo. Tornando ad Almodovar, nasce un dubbio: certa cinematografia vuol essere realmente uno specchio della realtà o, viceversa, vuole incidere sulla realtà sociale per modificarne valori etici e cultura? È descrizione o manipolazione? Rappresenta per allertare sulle difficoltà che in determinati contesti, oggi, la famiglia incontra a realizzarsi secondo la propria natura, o persegue l’obiettivo ideologico – ma anche utopistico – del suo superamento?
Giuseppe Dalla Torre
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